Aspettando il 25 aprile.
Mi tenevi sulle ginocchia. Seduto sullo sgabellino a quattro gambe un po’ storte, che avevi fatto per me, strofinavi il tuo viso, ruvido di barba non fatta, sul mio viso piccolo e rotondo. Come sempre, quando cominciava a fare molto caldo, io ti aspettavo sul portone e tu arrivavi. Arrivavi con la bici gialla e nera e con le pinze al fondo dei pantaloni per impedire che andassero nei raggi. La vecchia borsa a tracolla e un sorriso che sapeva di sudore, di polvere, di ferro e fonderia.
Era tardi per me, le dieci e mezza di sera eppure ti aspettavo perché il mio mondo non era completo se tu non lo colmavi con la tua presenza.
Ti saltavo al collo e ti baciavo con i miei baci umidi e totali incurante, inconsapevole della tua stanchezza. Ti portavo la borsa, tu posavi la bici in cantina e facevamo insieme i quattro piani di scale che ci portavano a casa. Continuavo a parlarti, a raccontarti e tu, solo mio, mi sorridevi anche mentre ti lavavi con l’acqua fredda nel lavandino della cucina.
Come un piccolo cane felice ti prendevo le ciabatte, tu ti sedevi io ti slacciavo le scarpe. Tu le toglievi e infilavi le ciabatte.
L’aria era calda anche di sera tardi ma noi andavamo sul balconcino, quello che guardava le fila diritte di insalata e costine, rose e ravanelli del giardino di Susetto, con la sua casetta di mattoni rossi e la vite che saliva come un operaio affaticato.
Avevamo in mano una tazza con il ghiaccio pestato, un po’ di caffè e lo zucchero e ci affondavamo dentro il cucchiaino portandoci alla bocca quei piccoli grani gelati e golosi. Guardavamo atterrare gli aerei a Caselle, ci passavano proprio sulla testa con le loro lucine rosse e la scia di panna bianca nel cielo blu scuro.
Mi sedevo sulle tue ginocchia e ti dicevo: “racconta”
Imperiosa, esigente e tu mi raccontavi dei tuoi tramonti di fabbrica rosso fuoco, dove le colate dalle siviere avevano la stessa grandezza e richiedevano lo stesso sacrificio di un vulcano domato.
Orgoglioso del tuo lavoro, fatto con la fierezza di un antico alchimista che piega il ferro e la consapevolezza del popolo a cui tu appartenevi, una classe operaia che sapeva chi era e credeva, sperava di essere il futuro di una nazione; quella stessa nazione che avevi contribuito a liberare con la lotta partigiana. Questo era un altro dei tuoi racconti che adoravo e che ti facevo raccontare spesso perché erano una parte di me. Di quando combattevi nelle brigate Garibaldi, sulle montagne del cuneese, con il tuo fazzoletto rosso al collo e lo sten al fianco, le scarpe rotte e spesso lo stomaco vuoto. Così tanto una parte di me, che hai voluto portassi anche il nome di battaglia di una tua compagna di lotta caduta durante un combattimento.
Mi parlavi di come le tue battaglie erano poi continuate all’interno della fabbrica perché tutti avessero un salario dignitoso e dei turni di lavoro non da bestia, incurante che mamma non fosse affatto contenta che tu “riempissi la testa di cose che non può capire a una bambina così piccola”.
E tu hai fatto in modo che capissi con un regalo meraviglioso: insegnandomi a leggere a quattro anni con una pazienza, una gioia che molto aveva del bambino che ancora abitava in te.
Facevamo a gara nell’inventarci storie strampalate che tu condivi con buffe parole in dialetto che io non sempre capivo, che ti obbligavo a tradurre e che poi usavo quasi sempre a sproposito, come se fossero parolacce e che ancora adesso adopero con la tenerezza del ricordo.
Così, come tutti gli anni, aspetto il venticinque aprile, il nostro 25 aprile, ancora di lotta e forse libertà e credimi, papà, è un bel modo di ricordarti.